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Media aetas

di Franco Cuomo


Mi trovo ora nella mia media aetas, nel mio basso medioevo del corpo, che è un medioevo ormai alla fine perché mi introduce ad una terza età, questa sì titanica, solitaria ed individuale. Questa che non è, come nella temporalizzazione storica, assimilabile alla modernità luminosa, ma al suo percorso inverso, all’oscuro alto medioevo, ovvero ai “decenni bui dell'autodefinizione pregiudizievole” della vecchiaia: la mia. Così mi sta capitando di ritrovare sempre di più “il gusto tutto infantile del disfacimento programmato, della ricontestualizzazione spiazzante, della deformazione dei suoni e delle immagini”. Avverto sempre di più il rifiuto di apparizioni e di visibilità faticanti quanto inutili. Il dover esserci sempre e comunque. Il fare salotto in rete o a eventi. Il dover preoccuparsi di piacere o risultare simpatico o organizzare incontri, trovare relatori. Così, mi impegno poco per le cose che scrivo e pubblico o per quelle che dipingo: La letteratura, la pittura si fanno strada in me, come esigenze autodefinitorie, percorsi autoliberanti: hanno preso il posto di ciò che un tempo aveva il sesso. In fondo, si fa sesso con se stessi e gli altri sono sempre uno strumento col quale ci si aiuta a riconoscersi. Così, la letteratura praticata, e la pittura pure, servono a far sparire i fantasmi o, per lo meno a riconoscerli per meglio dominarli. Altri amici, più giovani, scrivono, rappresentano, organizzano infaticabilmente reti di eventi di relatori: io no. Per il mio ultimo romanzo in selfpublishing, ho fatto una sola presentazione organizzatami da amici tra amici, ce ne saranno altre sempre con le stesse modalità, non intendo fare di più, non intendo pagare più nessuno per celebrarmi. Scrivo solo per lasciare una traccia flebile, lo stesso per ciò che dipingo. Poi c’è sempre il rischio di credersi un genio troppo avanti nel tempo, che come scrive giustamente Aldo Busi “ è la scappatoia dei mediocri […] perché la gloria negata è pur sempre la gloria e si può sempre incolpare il mondo di vedere un tacchino, laddove invece è apparsa un’araba fenice” anche se quello che scrive potrebbe valere anche per lui. Si, ok, uno dice: ma chi se ne frega. Giusto, chi se ne frega! Allora la voglio smettere con questi rituali a pagamento dove devi pagarti anche l’ospite che fa finta di recensirti con interesse e invece non gliene frega una mazza. Chiamare la giornalista critica letteraria che pure vuole essere pagata: ma se sono un tacchino pronto per il forno o un’araba fenice vorrei pure saperlo diamine no!?! Invece tu paghi e improvvisamente diventi araba fenice e se lo sei veramente non te lo dirà mai nessuno, perché tutti pretendo l’obolo e allora devi essere sempre gentile con tutti: no, non ci sto più. Ma smettiamola!!! “Alla fine mi chiedo: quanti ti ameranno per il coraggio della tua libertà dimostrandotelo con il trovare il coraggio per la propria, be’, lasciamo perdere”. E’ proprio così. Ricordo che già quattro anni fa dissi di no a l’editore Longobardi, al quale avevano chiesto un mio saggio a Galassia Gutenberg, e gli dissi di no, non per una iperstrutturazione della mia personalità, ma per una decostruzione della stessa, che mettesse in luce i miei scarti umorali, i miei vuoti di volontà, le fratture, le discontinuità, le aporie, le strutture ideologiche e attanziali, le mie insofferenze e soprattutto il mio sberleffo verso la futilità del mero apparire. In fondo non se ne importa nessuno. Sono stufo delle apparizioni e quelle che mi organizzano sono sempre solo e semplici incontri, dove magari si mangia tra amici e dove solo incidentalmente si parla di arte o di letteratura: niente paludamenti. Quello che scrivo e che ho scritto, quello che dipingo o ho dipingo, sono solo tracce, transiti, di un percorso, che serve a fare piazza pulita dei miei miti o delle mie rimozioni. Così, solo ora, nella media aetas della mia vita comprendo pienamente Laura Betti che, a chi le chiedeva perché si sottraesse dalle pubbliche apparizioni, o perché fosse spesso sgarbata o insolente con gli altri, rispose che stava invecchiando e non sentiva di avere più obblighi verso nessuno e nemmeno verso se stessa perchè la vecchiaia era una forma di libertà e poi, con la sua svagata leggerezza e con la sua voce graffiata, invitava a leggere il Cato maior de senectute, di Cicerone.

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